Il woke o colour washing, presa di posizione e sostegno da parte dei brand a una causa aderente ai propri scopi a cui si è soliti associare un colore che la rappresenti, ha una nuova frontiera: il well-being washing, ovvero «quell’insieme di attività volte a dipingere, internamente e spesso esternamente, una realtà come attenta al benessere delle sue persone, sebbene le cose vadano in maniera totalmente diversa».
Considerato uno tra i principali driver di scelta di un’organizzazione dai giovani talenti, specialmente se appartenenti alla Generazione Z, il well-being viene ormai considerato elemento imprescindibile quando si fa application per una posizione lavorativa, ma spesso finisce per diventare una mera leva strategica invece che parte integrante della cultura aziendale di un’organizzazione. È qui che subentra un ‘benessere di facciata’ costruito a tavolino in cui le imprese si mostrano intente ad organizzare attività e promuovere servizi che beneficiano al personale soltanto in apparenza.
Quali sono, però, le motivazioni che spingono le aziende a fare well-being washing?
1️⃣ Mancanza di ascolto dei bisogni dei dipendenti: non ascoltare il personale rischia di alimentare il malcontento degli individui o può portare all’adozione di un approccio standardizzato che non corrisponde alle reali esigenze dei dipendenti;
2️⃣ Mancanza di una visione d’insieme: il benessere aziendale è l’output di un processo alla cui base vi è la comprensione della complessità degli individui che compongono un team. Non avere una visione d’insieme, porta ad azioni one shot e non a una strategia sostenibile a lungo termine che renderà i dipendenti non solo più felici, ma anche più produttivi;
3️⃣ Stigmatizzare la salute mentale: se è vero che «Non c’è salute senza salute mentale», come afferma l’OMS, è altrettanto vero che la salute mentale per individui e aziende è ancora qualcosa di fortemente stigmatizzato e sottovalutato nonostante il fenomeno del burn out abbia preso sempre più piede negli ultimi anni.
Esattamente come nel caso del greenwashing, posizionarsi come aziende attente al benessere dei dipendenti e non esserlo veramente, seppur per un breve periodo, comporta diversi rischi tra cui:
❌ Perdita di credibilità e fiducia di consumatori e stakeholder
❌ Danneggiamento della brand reputation;
❌ Danneggiamento della brand image;
❌ Passaparola negativo online e offline;
❌ Crisi reputazionali;
❌ Aumento del turnover dei dipendenti;
Cosa può fare quindi un’azienda per non scivolare in queste pratiche? Innanzitutto, l’ideale sarebbe partire dalla propria vision e cercare di portare il focus in un’altra direzione: da ‘questo è ciò che facciamo oggi per le nostre persone’ a ‘questo è ciò che vogliamo fare per le nostre persone’, provando a comprendere le esigenze reali dei dipendenti, ascoltandoli e capendo come l’azienda può rispondervi e contribuirvi.
Inoltre, abbracciare un impegno a lungo termine per il benessere aziendale, con i giusti KPI, la formazione dei leader e la ripetizione di comportamenti in tutto l’organigramma aziendale, può favorire il passaggio e il cambiamento in positivo a una cultura aziendale in cui il benessere non è soltanto marketing ma un valore da veicolare a potenziali talenti interessati.
Una volta capito come creare un ambiente organizzativo che metta realmente al centro i bisogni della forza lavoro, bisogna implementare una strategia di employer branding utile a comunicare gli impegni presi e a dimostrare come l’azienda si prende cura dei suoi dipendenti e dei suoi consumatori.